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HOW TO: Come trovare gli spunti per scrivere dall'ambiente circostante

Si parla sempre del blocco del lettore e non si considera quasi mail il blocco dello scrittore. 
Perché i lettori sono molto più numerosi degli scrittori, direte voi. E avete anche ragione a pensarlo, probabilmente. Però in questo blog si parla di scrittura creativa e se sei qui, forse, anche tu sei un grande appassionato o un tipo curioso. 
Oggi voglio darti uno spunto per superare il blocco dello scrittore. Non è uno spunto dedicato a scrittori professionisti, ma è un piccolo consiglio pensato per chi, come me, si diletta nell'arte della scrittura perché trova in essa un momento di svago e divertimento.

Scrivere può essere divertente, soprattutto quando si gioca con la scrittura. Questo avviene, ad esempio, nelle challenges che si trovano sui Social.
Quella che vi propongo nasce da Facebook (o almeno, io l'ho scoperta lì), è un tag di 7 giorni e si chiama "Sette giorni\sette foto in bianco e nero della tua vita quotidiana - nessuna spiegazione, nessuna persona". L'obiettivo è fotografare ogni giorno un oggetto della propria quotidianità senza dare una spiegazione precisa. Io non ero molto d'accordo con questo ultimo punto, quindi ho modificato la sfida. Ogni giorno ho scattato una foto che ritraeva la mia quotidianità, l'ho modificata in bianco e nero e poi ho creato un piccolo racconto per spiegare un po' la foto e un po' di me.

Condivido in questo post i miei brevissimi racconti e mi piacerebbe sapere se anche voi, come me, avete sfruttato questo spunto per allenarvi a scrivere.

1/7
Via Matas è il nome di una via che risuona nella mia memoria storica e personalissima. Una parte della mia famiglia è nata lì perché, dopo essersi sposati, i miei nonni si sono trasferiti in un appartamento piccolissimo che si affaccia proprio su quella via, la stessa in cui abito oggi.
E’ un ambiente familiare, da sempre. I racconti e i ricordi sedimentati in quel luogo hanno popolato la mia vita in modo casuale, episodi imprevedibili e sporadici raccontati a causa di connessioni impreviste. 
Abitare in quella via, in un certo senso (molto romantico,forse) mi ha riportato a casa, mi ha permesso di costruire una casa tutta mia e una famiglia tutta mia, che è piccolina e un po’ pazza, piena di libri e Warhammer. Nella nostra casa non ci sono foto alle pareti, ho solo una pianta grassa che si chiama Harvey Specter e il nostro posto preferito è il divano, anche se lo utilizziamo molto poco, perché non abbiamo tempo libero. Non abbiamo neanche un garage. 
Non abbiamo nemmeno i balconi, ma la mancanza del garage è più arrogante.
Perché questo piccolo particolare, scomodo e fastidioso, ci costringe a parcheggiare in luoghi improbabili, salite incredibili, gradini assassini, i dannati sampietrini, e le mamme che portano i bambini a scuola e parcheggiano in doppia fila ovunque, e i vecchietti con il cappello che guidano Fiat Cinquecento color giallo paglierino, e AnconaAmbiente che non è contenta se non blocca il traffico ogni tre per due e il fatto che, dopo anni di pigrizia, dovrei tornare in palestra e ricominciare a correre come facevo quando ero giovane, magra e atletica. 
Tutto concorre al nervosismo mattutino. E non c’è niente che mi spaventa più di quella serie di gradini, che sono diventati una costante perché non ho il garage e il posto a 5 metri dal portone non esiste.
Quei gradini sono il mio incubo, ma non li baratterei con nient’altro se quei gradini significano poter vivere nella mia casa e nella mia famiglia.


2/7

Scrivo. Faccio poco altro nella vita.
Scrivo per passione, perché mi piace raccontare storie; scrivo per necessità, perché mi fa stare bene; scrivo per stare meglio, perché la scrittura è una terapia; scrivo per conoscermi fino in fondo, perché la scrittura è riflessione e introspezione; scrivo per guadagnare, perché la scrittura è diventata il mio lavoro.
Uno dei primi ricordi che ho e che riguarda il mio rapporto con la scrittura risale alle elementari. I miei quaderni delle materie scientifiche erano tutti pasticciati. Indecenti. OH, io le divisioni in colonna non le volevo imparare, così come mi sono rifiutata di imparare i logaritmi al liceo. Però i quaderni delle materie umanistiche sono sempre stati perfetti. Maestre e professoresse e professori di italiano alla fine dell’anno me li chiedevano, li fotocopiavano e li riutilizzavano spesso con altri studenti. Era una grande passione, ma ancora non mi era chiara la propensione verso le lettere, ci sono voluti 5 anni di scientifico tecnologico per capire. E ricordo che alle elementari, uscita da scuola, mentre le mie amichette giocavano con le Barbie, io scrivevo storie su fogli bianchi, illustravo i racconti, costruivo la copertina e rilegavo il tutto utilizzando tecniche barbare e molto più che rudimentali. Mamma mi diceva “se solo fossi così precisa con i quaderni di matematica...guarda che roba! Hai fatto pure la brutta!”.
Facevo brutta e bella, io che ho sempre scritto solo in bella copia.
Oggi scrivo per lavoro, ancora non mi sembra possibile e oggi, nel 2018, molti non capiscono. Il mio lavoro viene sempre sottovalutato. Le persone non sanno cosa c’è dietro al copywriting, non sanno che la scrittura inizia molto prima della prima lettera sul foglio e che è un lavoraccio, che invisibile per i clienti. Non sanno che il testo non è tutto il lavoro, ma che è il risultato di un processo di ricerca, organizzazione, strategia, creatività. Non è il foglio di Word che arriva in mail, è un’idea che ha trovato una forma originale e che aiuterà a raccontare con autenticità prodotti e servizi.
Io racconto ogni cosa attraverso la scrittura e quando mi devo esprimere preferisco scrivere che parlare.
Amo così tanto scrivere che se dovessi spiegare a parole quanto è grande questo amore non ci riuscirei, ma lo scriverei comunque nel modo migliore che conosco.

3/7
Per capire se il caffè è buono oppure no, versa un cucchiaino di zucchero e poi esclama “Sempre caro mi fu quest'ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude” ad alta voce. Se lo zucchero è ancora a galla il caffè è buono, se lo zucchero è affondato da un pezzo, non aspettarti che sia un buon caffè.
Ogni volta che bevo un caffè -la cosa capita circa 3-4 volte al giorno, sono arrivata a 6 caffè durante i periodi di buio totale- ripeto l’Infinito. Se sono sola lo dichiaro ad alta voce, quando c’è gente me lo tengo per me.
La giornata parte dopo il primo caffè e riparte dopo il caffè preso dopo pranzo, non c’è storia. Quando inizia una riunione bisogna prendere un caffè, per favorire la concentrazione. Mi piace bere il caffè anche dopo cena, quando la mattina dopo non ho appuntamenti. Per me il tempo dedicato a bere un caffè è uno dei momenti più intimi della giornata, da condividere solo con persone speciali e declamando versi speciali, come l’Infinito di Leopardi o cose così.

4/7
Siamo fatti di difetti e i difetti ci contraddistinguono. Io ne ho tanti e sono tutti diversi, si adattano bene alle situazioni e ai momenti. Praticamente ho un difetto per ogni cosa.
Quello che mi fa ridere di più è l’ipocondria, ma mi fa ridere solo dopo che l’ansia è passata. Ad esempio, correva l’anno 2017 ed era un giorno come un altro. La sveglia suona alle 7 come ogni mattina; faccio fatica ad aprire gli occhi come sempre; spero di aver letto male l’orario sul telefono, ma non è mai così e quindi scendo dal letto e mi fiondo fuori dalla mia stanza, perché devo correre.
Corro sempre.
Mentre corro a piedi nudi verso il bagno succede la peggiore catastrofe possibile in quel momento: calpesto con forza un orecchino, lo stesso orecchino che la sera prima, invece di sistemare insieme agli altri orecchini, avevo lanciato sulla scrivania -perché sono pure pigra.
Insomma, dolore lancinante, sangue ovunque e penso che la morte sia vicina. Ripercorro con la mente tutta la mia scheda sanitaria e non ricordo se ho fatto o meno il richiamo dell’antitetanica. Disinfetto il piede e creo un’impalcatura di cerotti, garze e acqua ossigenata sul dito ferito. Poi vado a lavorare, ma non riesco a pensare ad altro che al tetano. Sto per morire, lo so, i miei giorni stanno per finire e ho solo 26 anni. Non ho fatto niente nella vita, non sono stata a New York, non mi sono ancora laureata, non ho fatto tutte le cose che vorrei fare e il mercoledì successivo avrei dovuto fare l’igiene dal dentista, morirò senza poterlo fare.
Che morte stupida e orribile. Mi ricorderanno come quella pigra scema che, invece di togliersi gli orecchini come fanno tutte le persone normali, da sotto il piumone li ha lanciati nel buio? La stessa scema che la mattina dopo ha calpestato uno dei due orecchini e si è beccata il tetano? Il tetano?
Cos’è il tetano? Arrivo in ufficio in ritardo, il piede mi fa malissimo (in realtà non fa così male, ma nella mia testa sto morendo quindi fa più male di quanto possiate immaginare anche solo lontanamente, eccheccazzo! Sto morendo, oh, sto morendo). Sono tentata: vorrei chiamare il mio medico, ma poi mi trattengo perché mi squilla il telefono dell’ufficio e devo rispondere. Chiudo la chiamata e inizio a cercare notizie su Internet, sto morendo, Cristo, è fatta, sto morendo, lo so, lo sento. 
Forse dovrei chiamare nonna, non la sento da tanto e mi dispiacerebbe lasciarla così, senza nemmeno avvertire. Non me lo perdonerà facilmente.
E Michele? Santo Dio, Michele! Lo devo salutare per sempre. Avevamo tanti progetti, stiamo insieme da così poco, avremmo potuto avere una vita bellissima insieme, lo so, diavolo, lo so, ho rovinato tutto! Mi aspettano giorni terribili, perché il tetano si presenta come una paralisispastica (spastica!!!) che inizia da viso e collo per poi procedere su torace e addome e arti superiori e inferiori. E poi cerco le immagini su internet ed è tutto bruttissimo e chiedo ai colleghi e tutto il giorno così. Ogni tanto vado in bagno a controllare il piede, ho paura che sia nero, gonfio e tumefatto. Quando tolgo il calzino ho paura di guardare, Dio, sarà raccapricciante, che schifo, mi amputeranno la gamba e dopo atroci sofferenze morirò, lo so, morirò.
Poi non sono morta, evidentemente. Ma è così tutti i giorni o quasi.

5/7
La mia divisa. Le mie Adidas sono la mia divisa. Ho sempre scelto gli stessi due modelli e ho sempre indossato solo queste. Ho comprato tante scarpe nella mia vita, ma non lo ho indossate tutte con la stessa frequenza. Le Adidas sono ai miei piedi quasi tutti i giorni. E quando non esco di casa con le Adidas comunque le porto con me, perché a un certo punto della giornata devo cambiare scarpe.
Anche quando mi sono laureata è andata così: proclamazione, incoronazione e cambio scarpe repentino.
Sono abitudinaria. A volte sembro ossessivo-compulsiva e probabilmente è una questione genetica, perché mia sorella è peggio di me. 
Compro sempre le stesse Adidas bianche, non compro mai scarpe nere, le Stan Smith sempre con il bordo blu e le Super Star sempre con le righe nere. Ho provato a cambiare genere o modello, ma niente.
Torno sempre lì.
Ed è così per tutto, faccio sempre le stesse cose: quando vado in libreria sistemo sempre gli scaffali (in realtà lo faccio anche al supermercato e in profumeria); ogni anno a luglio compro l’agenda, sempre la stessa, per l’anno successivo (perché sono pure nevrotico-ansiosa); lavo i capelli un giorno sì e uno no, e quando non posso lavarmi i capelli mi vengono le palpitazioni; compro sempre le Bic blu per scrivere; compro sempre lo stesso modello si assorbenti, stessa marca, stesso formato e quando non li trovo vado fuori di testa e poi quando li trovo faccio scorte imbarazzanti per paura di non ritrovarli più; prima di andare a dormire bevo la tisana al finocchio, a volte ho provato a preparare altre tisane, ma poi ho sempre buttato tutto e preparato la tisana al finocchio; uso sempre lo stesso profumo da quando ho iniziato a mettere il profumo, ne ho ricevuto qualcuno in regalo e difficilmente sono riuscita a finire il flacone; quando vado al bar ordino sempre caffè e brioche alla crema; metto l’eyeliner tutti i giorni nello stesso modo; mi vesto sempre con gli stessi vestiti, anche se l’armadio è pieno di roba e metto sempre le stesse scarpe, perché forse sono affetta da una strana forma di autismo, a questo punto.
Quando ho i piedi nelle Adidas mi sento bene, cammino spedita, senza dolori e senza modificare la mia andatura naturale; su certe pavimentazioni le scarpe fischiano e tutte le volte penso che mi manca la pallavolo e d’estate, quando indosso i sandali, penso alle Adidas chiuse nella loro scatola e mi mancano sempre un po’.

6/7

Nonno Ferruccio è morto quando avevo 11 anni. E’ stato la mia prima grande perdita e anche la più dolorosa. Credo abbia segnato la fine della mia infanzia.
Dopo la sua morte ho iniziato ad avere paura. A 11 anni non sai cosa sia la paura, quella che non ti fa dormire la notte e che ti fa svegliare di soprassalto in un bagno di sudore, ma dopo la morte di nonno Ferruccio io ho iniziato ad avere paura e non ho mai smesso.
Però, quell'evento così tragico mi ha dato una grande lezione di vita. Ho imparato che bisogna comunicare i propri sentimenti e che non dobbiamo tenerci tutto dentro perché, se mai un giorno decideremo di comunicare, potrebbe essere troppo tardi. E io non ci casco più. Non voglio più rimanere sospesa tra i miei sentimenti e le cose non dette. Con nonno è andata così, gli volevo bene ma sento di non averglielo detto abbastanza. Poi è evidente che il mio atteggiamento parlava chiaro, ma non ho ricordo di un ti voglio bene detto ad alta voce guardandolo negli occhi.
Quindi oggi è così, se voglio bene a una persona lo dico chiaro, guardandola negli occhi! E non perdo occasione di ripeterlo ogni volta che sento di volergli bene. E lo senti forte, perché quando vuoi bene a una persona ti si scalda il cuore ed è una sensazione bellissima che voglio diffondere e condividere.
Non significa essere sdolcinati, significa essere sinceri.

7/7
Le piante grasse sono gli unici esseri viventi che riesco a far sopravvivere. Non ho mai avuto animali domestici, a parte un pesce rosso che si chiamava pesce e che è rimasto in vita inspiegabilmente per 10 anni. Non ho mai avuto piante, ma quando sono andata a vivere da sola ho deciso che ne avrei avuta almeno una. Oggi ne ho due, ma la mia preferita è Harvey Specter.
Le piante grasse sono come me, sono piante autonome e indipendenti che non hanno bisogno di molta cura: un po’ di acqua ogni tanto e il sole, quello sempre. Se ne stanno lì a guardarti, belle verdi e carnose, amichevoli e familiari, ma un po’ spinose, ché devi saperle prendere, ma non le devi toccare perché puoi farti male. Io sono così, sto bene da sola, mi affeziono a poche persone e il contatto fisico con gli sconosciuti mi infastidisce (non vado alle fiere per un motivo preciso).
Mi servono i miei spazi, ho bisogno dei miei silenzi e della mia solitudine. Non mi piacciono i luoghi affollati e non mi piacciono tante persone. Harvey Specter fa il suo lavoro e lo fa bene e io ho bisogno di circondarmi di persone così. Persone che ci sono, ma che non mi stanno addosso, che non mi assillano con domande e discorsi inutili, persone che capiscono la mia indipendenza, il mio silenzio e la mia solitudine, che non si offendono se non rispondo al telefono e che non cercano di coinvolgermi per forza in situazioni in cui non mi sento a mio agio. Io e Harvey Specter andiamo molto d’accordo, lui mi rispetta e io rispetto lui. Ad esempio, se lavoro 15 ore al giorno dal lunedì alla domenica, Harvey Specter non mi giudica. Harvey Specter mi capisce, me l’ha confessato poco fa. A volte gli leggo i miei articoli e gli piacciono sempre. Quando sono arrabbiata con qualcuno glielo dico e lui non mi contraddice e non cerca di convincermi del fatto che sono troppo dura e che bisogna dare una seconda (terza-quarta-quinta…) possibilità a tutti o che dobbiamo per forza andare tutti d’accordo. Se voglio ascoltare Fabri Fibra, la musica supertrash che mi piace tanto o le canzoni della Disney, Harvey Specter non mi guarda come se fossi una demente. Se voglio riguardare lo stesso film una volta al mese (di solito capita con Forrest Gump) non mi considera un’idiota. Se voglio passare due ore a temperare le matite Harvey Specter non mi compatisce. Devo aggiungere altro?
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Ogni occasione può essere uno spunto per scrivere racconti e per allenare le vostre penne a scrivere sempre meglio, il vero segreto è essere costanti.
Fatemi sapere se, anche voi, avete accettato la sfida delle foto in bianco e nero.
Lasciate un commento o scrivetemi una mail a letterandoconmarty@gmail.com

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