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MI CHIAMO LUCY BARTON - Elizabeth Strout

 Vi capita mai di scegliere di leggere un libro e, appena iniziata la lettura, scoprire qualche affinità con ciò che state vivendo?
Esempio semplice: è il 5 luglio e scegliete di leggere un libro. Iniziate a leggere e scoprite che la storia è ambientata nel 5 luglio 1967?
A me capita spesso. Forse perché difficilmente, prima di leggere un romanzo, mi informo sui dettagli della trama. Preferisco sempre recuperare informazioni sullo scrittore.
Quindi mi capita spesso di vivere delle situazioni insieme ai protagonisti delle storie dei libri ed è successo anche questa volta.

Ho avuto la sfortuna di trascorrere più di un mese in ospedale tra aprile e maggio e, per ingannare il tempo soprattutto di notte, mi sono portata alcuni libri da leggere.
Mi chiamo Lucy Barton di Elizabeth Strout è il primo che ho deciso di leggere e la casualità ha voluto che fosse ambientato proprio in ospedale.
Praticamente io e Lucy abbiamo vissuto lo stesso ambiente, contemporaneamente.

TRAMA
In una stanza di ospedale nel cuore di Manhattan, davanti allo scintillio del grattacielo Chrysler che si staglia oltre la finestra, per cinque giorni e cinque notti due donne parlano con intensità. Non si vedono da molti anni, ma il flusso delle parole sembra poter cancellare il tempo e coprire l'assordante rumore del non detto. In quella stanza d'ospedale, per cinque giorni e cinque notti, le due donne non sono altro che la cosa più antica e pericolosa e struggente: una madre e una figlia che ricordano di amarsi.

In questa storia, la nostra protagonista ha subìto un intervento chirurgico apparentemente molto semplice, dal momento che si trattava di un'appendicectomia, al quale però è seguita una brutta infezione che l'ha costretta a restare ricoverata in ospedale per un tempo che non era stato previsto prima dell'operazione.
La narrazione inizia con l'incontro tra Lucy e sua madre. Ad un certo punto, infatti, Lucy si sveglia sul suo letto di ospedale e seduta accanto a lei c'è sua madre, che l'ha raggiunta dall'Illinois dopo numerosi anni di silenzio totale.
La prima sensazione che abbiamo, quando iniziamo a leggere questa storia, è un senso di disagio forte che deriva, da un lato, dall'insofferenza della protagonista che non vede l'ora di lasciare l'ospedale per stare bene e per riabbracciare le sue bambine, dall'altro, dal disagio e dall'imbarazzo che derivano da questo incontro non previsto.

Il libro prosegue spedito, l'imbarazzo iniziale si supera facilmente e le due donne iniziano una conversazione che dura per giorni e che permette un confronto su tanti argomenti taciuti in quegli anni. E riemergono storie su storie che mettono in luce il loro passato, l'infanzia di Lucy e la sua esistenza prima del distacco dalla famiglia. Siamo testimoni anche di numerosi flashback, che come succede nelle conversazioni quotidiane, partono da espedienti incomprensibili e da collegamenti mentali che solo la nostra mente può capire.

Mi chiamo Lucy Barton è una narrazione nella narrazione. Seppur piuttosto esile e pur essendo costruito di capitoli brevissimi, all'interno di questo romanzo troviamo tutte le storie che animano la vita della protagonista: l'artista di cui si è innamorata da ragazza, l'incontro con la scrittrice Sarah Payne, il dottore che la visita in ospedale, il marito William, la miseria che ha vissuto da bambina quando è stata costretta a vivere in un garage.
Elizabeth Strout è una scrittrice molto capace, che in modo chiaro e semplice riesce a comunicare moltissimo utilizzando poche parole. Le parole giuste, essenziali. Quelle che servono a entrare nel cuore del lettore.
E' bello leggere libri di questo genere perché storie come queste ci mettono di fronte al fatto che le famiglie, nonostante tutto, non si disgregano mai davvero. Nonostante le difficoltà, i problemi, la distanza, il silenzio, le famiglie restano sempre unite. Magari cambiano forma nel tempo, magari si plasmano e si trasformano in qualcosa di nuovo e, come dice la mia amica Giulia Ciarapica, cambiano forma, si adattano al tempo, ma non possono distruggersi, Semplicemente perché sono dei luoghi, e i luoghi non muoiono. Esistono.
La mia maestra si accorse che mi piaceva leggere e cominciò a passarmi dei libri, anche da grandi, e io li leggevo. E anche più tardi, alle superiori, ho continuato a leggere, dopo i compiti, nella scuola dove faceva caldo. I libri mi davano qualcosa. E' questo che penso. E mi dicevo: Scriverò libri e le persone si sentiranno meno sole!  [p. 22]
Altro aspetto molto interessante, al di là della buona scrittura dell'autrice, è proprio l'inno alla professione di scrittore, che forse è anche una dichiarazione di poetica. Lucy è una scrittrice e dai suoi racconti emergono tutte le peripezie che si nascondono dietro un mestiere tanto nobile quanto poco riconosciuto come tale. Conosciamo la fatica che c'è dietro la scrittura di un romanzo o di un racconto; la competizione tra scrittori e l'invidia tra rivali; ma anche la soddisfazione di vedere il proprio lavoro pubblicato e la bellezza di potersi confrontare con chi apprezza quel lavoro.
La scrittura intesa come necessità, più che come professione. Una pratica che, nonostante tutto, sembra sia doveroso e naturale portare avanti. Una passione, grande, una missione, quasi.
Mi piacciono gli scrittori che si sforzano di raccontare qualcosa di vero. [p.39]
Mi è dispiaciuto leggere questo libro mentre ero in ospedale, perché non ero totalmente concentrata sulla lettura. Eppure sono riuscita ad apprezzare ogni singola parola. Ovviamente ho già aggiunto alla mia wish list tutti (o quasi) i romanzi di Elizabeth Strout che, ricordiamolo, con Olive Kitteridge ha vinto il Premio Pulitzer nel 2009, il Premio Bancarella nel 2010 e il Premio Mondello nel 2012. Da questa raccolta di racconti è stata anche tratta una serie tv prodotta dalla HBO! Perché non mi avete detto niente?


Informazioni aggiuntive:
Autore: Elizabeth Strout
Codice ISBN: 9788806234300
Prezzo di copertina: 12.00€
Pagine: 161
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