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PATRIMONIO - Philip Roth

Se con Jack London ho una relazione burrascosa, con Philip Roth è amore puro. Non potrei descriverlo in altro modo.
A scuola non me lo aveva raccontato nessuno e all'università non ho potuto seguire un corso di Letteratura anglo-americana, purtroppo. Altrimenti forse ne avrei saputo di più.
L'incontro con questo autore è stato una casualità e, infatti, il primo libro che ho avuto la fortuna di leggere è stato il suo ultimo romanzo: Nemesi.
Da quel romanzo in poi, ho accumulato copie dei suoi libri nella mia libreria. La collezione non è ancora completa e, grazie a Dio, non ho ancora letto tutto ciò che ha scritto.
Procedo piano piano, con la falsa speranza che i suoi libri non finiranno mai, ma finiranno.

Altra cosa, non ho mai letto la trama dei suoi libri prima di leggere il romanzo. C'è chi lo fa: legge la trama, cerca le connessioni, segue l'ordine di pubblicazione e di traduzione. Io no. Non lo faccio mai, soprattutto con Philip Roth. Mi piace scoprire passo passo la storia, senza precedenti e senza fasciarmi la testa prima di iniziare la lettura.
Ovviamente a volte mi rendo conto che alcuni dei suoi personaggi ritornano e che, magari avrei fatto bene a seguire l'ordine di apparizione. Però so che questa è una prima lettura per me e so benissimo che ce ne saranno delle altre. Quindi, in questa prima lettura, procedo seguendo l'ordine del caos. Mi lascio guidare dalla casualità e dal sentimento: a volte mi lascio affascinare da un titolo, a volte da una copertina e a volte qualche anima buona me ne regala una copia (e non riesco mai a resistere, devo leggere subito).

Nel miei piani di lettura, a un certo punto, avevo previsto di leggere un romanzo di Philip Roth a settimana. Poi ho imparato che la letteratura è sentimento e che non si può fare nessun piano strategico quando le uniche variabili a disposizione sono, appunto, i sentimenti.

Più o meno è successa la stessa cosa con Patrimonio. C'erano gli sconti sui libri Einaudi, il 25%, che oggi sembrano un miraggio; ero in libreria e ho scelto 3 dei suoi libri. Il primo che ho iniziato è stato Patrimonio. In copertina c'è una foto in bianco e nero e in quella foto sono raffigurati Philip Roth, suo fratello e suo padre, Herman.

Philip Roth è uno scrittore formidabile, dal mio punto di vista, perché fa la cosa più difficile e la fa sempre bene. Scrive di ciò che conosce. Scrive di sè e della sua vita. La sua scrittura è onesta e vera e non c'è filtro. Scrive ciò che pensa e lo scrive senza girarci troppo intorno. Lo fa nei romanzi, figuriamoci in questa che è una storia autobiografica: la storia del rapporto con suo padre.
C'è da lasciarci l'anima in un libro così. Io ce l'ho lasciata. Ed è stata una sensazione così forte che non me la sono sentita di passare all'autore successivo, di pescare un libro a caso nella mia libreria. Ho continuato con Philip Roth e La mia vita di uomo, ma di questo romanzo vi parlerò in un altro articolo. Non qui.

Benjamin ci diede i risultati della biopsia. Il tumore era di un tipo estremamente raro, composto di una specie di materiale cartilaginoso, "un po' come l'unghia del suo dito", disse a mio padre. Era benigno, ma invulnerabile alle radiazioni. [...] Io pensavo a quell'unghia che per dieci anni gli era cresciuta nella cavità del cranio, fatta di un materiale duro e tiglioso come lui, che aveva incrinato l'osso sotto il naso e, con tanta forza ostinata e incessante proprio come la sua, era penetrata come una zanna nella cavità del suo viso (pp. 128-129)

E' un libro feroce, per niente facile. Non c'è un momento giusto per leggere un libro così. Dalle prime pagine si intuisce che a un certo punto riuscirà a lacerare qualcosa dentro il lettore. Però, allo stesso tempo, è un libro di una dolcezza unica, non ho mai visto un Philip Roth così disarmato. Mi viene sempre in mente quella frase di Hemingway quando diceva che l'unico modo per scrivere bene è sedersi davanti alla macchina da scrivere e iniziare a sanguinare. In Patrimonio c'è la violenza di un male incurabile, che se ne sta lì, silenzioso e paziente e intanto cresce facendo terra bruciata intorno a sè.
Meglio concentrarsi sulle cose da fare. Ma anche la concentrazione non è poi così meravigliosa. Non posso leggere, Dio sa che non posso scrivere...non posso neanche guardare uno stupido incontro di baseball. Non riesco assolutamente a pensare. Non posso fare nulla. (p. 100)
Questo libro fa i conti con un sacco di cose, ma prima di tutto con l'amore. Nel momento in cui l'autore è faccia a faccia con quel brutto male, inizia a pensare a tutto quello che è stato del rapporto con suo padre. E' come se la consapevolezza di questo male avesse dilatato i sensi, predisponendo l'autore all'ascolto. E quindi ripercorre la loro vita insieme, i momenti più felici ma soprattutto quelli più spinosi, che hanno creato frizioni, litigi e pensieri.
Mio padre era ancora, sistematicamente, un prodigio, e perciò destinato a soffrire: nulla gli sarebbe stato risparmiato. (p. 126)
Conoscendo un po' questo autore, non riesco a non rivederlo nei gesti di suo padre, nelle sue parole e nelle sue azioni. La matrice Rothiana ha lavorato in profondità e ha plasmato il carattere dei due figli, i fratelli Roth. Sapere che Philip sia riuscito a fare della sua sensibilità e della sua voglia di lasciare un segno, di dire qualcosa, un vero e proprio mestiere è sicuramente frutto di grande ispirazione. Questo romanzo, oltre a farmi sanguinare, mi ha dato ulteriori motivi per stimare e rispettare il lavoro di questo grande scrittore.

Quando finisco di leggere uno dei suoi libri e, come sempre, pubblico la foto sui miei social per tenere traccia delle mie letture, ogni volta, dicevo, scrivo una frase. Sempre la stessa. Perché quando concludo i suoi libri e arrivo all'ultima pagina l'unica cosa che mi viene da dire è "leggete Philip Roth". Non è un autore semplice. Non sempre i suoi libri sono scorrevoli. Non sono mai spensierati, questo è certo. Ma è un autore che va studiato, se il nostro obiettivo è scrivere qualcosa che abbia senso di essere letto. I suoi libri sono manuali di scrittura, a volte truci, a volte spietati, ma sempre onesti, questo sì.

Di questo libro ricorderò sempre una delle descrizioni che Philip fa di suo padre. Siamo verso la conclusione, e sappiamo benissimo dove ci porterà. C'è questa scena, alla fine, la cena di famiglia. Il padre di Roth ha subito un intervento e l'intestino decide di tornare a funzionare proprio nel bel mezzo di quella cena, rendendolo protagonista di una sequenza da incubo.

[...] lui si trovava completamente isolato dentro un corpo che era diventato una terribile prigione dalla quale era impossibile evadere. il recinto di un mattatoio. [...] "Mi sono smerdato addosso," ripeté lui, e questa volta si sciolse in lacrime. Lo portai in camera, dove si sedette sulla sponda del letto e continuò ad asciugarsi mentre io andavo a prendere uno dei miei accappatoi di spugna. Quando fu asciutto lo aiutai a infilarsi l'accappatoio e poi tirai giù il lenzuolo e gli dissi di mettersi a letto e di farsi un sonnellino. "Non dirlo ai bambini," supplicò, guardandomi dal letto con l'occhio buono. "Non lo dirò a nessuno," risposi. "Dirò che sei andato a riposare". "Non dirlo a Claire". "A nessuno" dissi "non temere. Sarebbe potuto capitare a tutti. Non pensarci più e fatti una bella dormita. [...] Il bagno sembrava un posto dove un ladro particolarmente malevolo avesse lasciato il suo biglietto da visita dopo aver svaligiato casa. Sistemato mio padre, e questa era la cosa che contava, avrei preferito inchiodare la porta e dimenticare quel bagno per sempre. "E' come quando scrivo un libro," pensai "Non so da dove cominciare". [...] Si pulisce la merda del proprio padre perché deve essere pulita, ma dopo averlo fatto tutto quello che resta da sentire lo senti come mai prima d'allora. E non era la prima volta che lo capivo: una volta sfuggito al disgusto e ignorata la nausea e dominate le fobie che acquistano la forza di tabù, c'è ancora tantissima vita da accogliere dentro di sé. [...] Questo, dunque, era il mio patrimonio. E non perché pulire fosse il simbolo di qualche altra cosa, ma proprio perché non lo era, perché non era altro, né più né meno, della realtà vissuta che era. Ecco il mio patrimonio: non il denaro, non i tefillin, non la tazza per farsi la barba, ma la merda. (pp.134-135-136-137)
Ho preso qualche parte per restituirvi brevemente il racconto, ma queste quattro pagine atroci disarmano. Solo i grandi scrittori ci riescono.
Leggete Philip Roth

 Informazioni aggiuntive:
Titolo: Patrimonio
Autore: Philip Roth
Codice ISBN: 9788806218010
Prezzo di copertina: 11,50€
Pagine: 187
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